“Sbarbicatori di parole”

Non ho mai letto nulla che, così come questo testo, dagli occhi sia passato direttamente nel cuore, prima ancora di essere compreso. E non ho mai sentito, come in questo caso, definire ciò che è poesia con la poesia stessa.


“ Verrà l’inverno, questo lo so. Il ventinovesimo da quando sono nato, il quattordicesimo, credo, da quando scrivo poesie. La stanza in cui scrivo i miei versi: un tavolo, quattro pareti, scansie con i libri alle spalle, due finestre davanti che mettono a est. Da quella più ampia posso vedere, spostati un po’ a destra, due abeti verdi ma austeri, dietro gli abeti dei culmini rossi, l’andare lento dei colli come dorsi di sauri e, quando il cielo è benigno, fatte d’aria le Alpi, le merlature azzurrine alte migliaia di secoli. Al di là di quelle montagne ci sono gli slavi, al di là respira il Danubio. Il Danubio non c’è non lo vedo lo posso soltanto sentire, come le unghie di questo inverno che viene. Si sente venire l’inverno, non solo perché buca tendini e ossa e io le pareti comincio a guardarle con gli occhi di Giona, l’inverno è presente dentro ogni foglia d’ottobre. Ed oggi è un bel giorno d’ottobre. Ieri però – e anche stanotte – è piovuto, non c’erano montagne azzurrine, né culmini rossi, né dorsi di sauri, c’erano appena i due abeti pesanti, le finestre appiattite contro una luce un po’ baltica e il sospetto che il niente fosse qui attorno. Per questo il sereno di oggi è profondo, lo si guarda accecante sugli orli dei monti come dopo un digiuno che estenui, per questo lo screzio bianco e dentro violetto di nubi superstiti a nord è inciso al bulino e rende ancora più intatta, perfetta la sostanza del cielo. È in giorni simili a questo che esco, fuori è ancora campagna e non è ancora occidente, l’occidente morde il silenzio lontano, dentro i televisori, sulla statale, lontano…………Passeggiare certe mattine in campagna, quando la luce è calva come un sasso di fiume, non è soltanto un esercizio di stile; la mia potenza, la mia insufficienza di uomo, la misuro col metro dei colori d’autunno.[ …..]e sono gialli fastosi, ocra discreti, e l’arancio si incendia di rosso, il rosso si finge amaranto, l’araldica rara che rende più nobile il verde. Per quanti amaranti c’è un nome, per quanti toni di verde, per quanti celesti c’è un nome? Qualche volta mi sforzo e serro le palpebre come di miope o navigante o pittore, ma basta una brezza e dispone un giallo dove prima era verde, con la rètina e, peggio, la penna che in superficie non coglie che crespe, mentre dietro quel muro impassibile sta tutta una peripezia d’elettrone. Tuttavia esiste, quel nome, ed è un atomo anteriore alle cose e ogni colore non colto si chiama distanza, ogni sguardo che coglie si chiama poesia […] è questo, mi dico, il corso dei poeti, sbarbicare parole dal silenzio, farle intatte –rosa di Paracelso- sentirle pesanti sul palmo, come le teste dei re, dentro il cerchio concluso di monete d’oro o di rame […]
Verrà l’inverno, la più metafisica delle stagioni. La più propizia all’immaginazione e alle amicizie. La terra si farà bruna, i rami si faranno neri, le erbe e le stoppie, tutto il mondo piegherà le vertebre al sonno. Soltanto il vento taglierà le nuvole. Nevicherà, se farà abbastanza freddo: allora la terra e il cielo si confonderanno, la neve cancellerà siepi e muretti, i confini delle villette qua attorno. Dentro gli appartamenti c’è già chi si affiderà alle paraboliche per essere ancora più solo, io mi affiderò alle parole per raffigurare il suono della neve. Fra tutte sceglierò le lettere più morbide –la lettera a, la lettera e, la lettera o, la elle, la emme, la enne – e le parole che ne siano più ricche; cercherò di disporle con cura, in giaciture che ricordino le sinuosità distese di una donna in penombra, poi, scostando le tende della finestra, più ampia, confronterò il bianco del foglio col bianco dell’inverno e forse, nel farlo, mi commuoverò, perché commuoversi non significa piangere, ma muoversi insieme alle cose, averne il medesimo ritmo, il medesimo passo, il medesimo polso; forse lascerò lo sguardo andare nella neve, lo lascerò libero nel bianco, con la disposizione dell’amante che si lascia annientare dalle carezze di chi è amato, un piede, un nuovo piede nella neve e l’orma si farà ombra e tutto, per un istante, sarà dimenticato, alle mie spalle il primo – l’imo – lampo di carbonio che ci precipitò alla terra “nudi”.

 

Pierluigi Cappello, Gemona del Friuli 1967

dal racconto” La mela di Newton” in “Il dio del mare” 

 


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