I treni non si fermano più qui dagli anni cinquanta, ma rimane
a tutti gli effetti la mia fermata. C’è ancora scritto Gare
sopra la volta, il vetro del guichet è ancora intatto,
le rotaie non ci sono più ma c’è una specie di cucitura
nel terreno, cicatrici parallele dove l’erba stenta
a crescere. Poi, la vertigine del marciapiede:
quel salto di oltre mezzo metro dal bordo del binario
dentro l’arrivo successivo, il servizio perpetuamente sospeso,
e qualche (mai come in questo caso nome più adatto)
traversina dormiente, detengono tutto ciò che io abbia mai saputo, in miniatura,
della velocità e solidità del mondo, un delirio di perdita
d’equilibrio seguito dalla consapevolezza che più in là
di così non avrei potuto cadere. Questo è ancora il quartier de la gare,
dove la pioggia scende come i titoli di un vecchio film,
un appello di professioni perdute: tagliatore d’ardesia, guardacaccia,
sommelier, orticoltore, garzone di bottega, sartina,
fabbro, allevatore di conigli e flâneur d’ufficio di collocamento…
quest’ultimo mio nonno, che ogni giornata la affilava
sulla molle incudine della sua inattività. Artisan du temps libre
si definiva, artigiano delle ore vuote:
e riempiva le sue giornate di inoperosità al Café de la Gare,
e le sue nottate le svuotava all’Hotel de la Gare;
non ha mai lasciato la sua impronta su nulla eppure lo vedo ovunque.
Patrick McGuinness. Tunisia 1968
da “L’età della sedia vuota”
traduzione di Giorgia Sensi
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