Quel che più mi piaceva
era frugare nel cassetto del tuo tavolino.
Imbattermi in quell’inventario di oggetti inutili.
Il portapillole rotto,
la scatolina di madreperla coi miei denti da latte,
negativi senza fotografia,
trasparente emulsione
in cui l’oscurità abbaglia
col suo metallico riflesso d’argento.
Scene già vissute
dalla donna che eri stata in altri tempi
e che io mi ostinavo a comprendere.
Chiocciole senza mare, fili sparsi e bottoni,
un guanto spaiato,
simili a quei pezzettini di cera benedetta,
a quelle manine orfane
che si appendono in certe cappelle,
ex voto celebranti
la guarigione di un piccolo ammalato.
Chiavi accantonate
che hanno smarrito le loro porte le loro serrature
sgangherata magia pezzi
non assemblati
rimasugli
tutti frammenti della tua vita di prima.
Humus fiorito
sul banco di terra smossa
in cui l’infanzia trova un obiettivo,
una ragione d’essere.
Rosana Acquaroni, Madrid 1964
da “La casa grande”
traduzione di Francesco Tarquini