Tu camminavi davanti a me
mi trascinavi di nuovo fuori
alla luce verde che un giorno
aveva messo zanne per uccidermi.
Io ero obbediente, ma
torpida, come un braccio
indolenzito; ritornare al tempo
non era mia scelta.
Ormai abituata al silenzio
come una cosa tesa tra noi
un sussurro, una fune:
il mio nome precedente,
ben tirato.
Tu avevi le tue vecchie catene
con te, amore potresti chiamarle,
e la tua voce di carne
davanti agli occhi tenevi fissa
l’immagine di come volevi
mutarmi: viva di nuovo.
Era quella tua speranza che mi spingeva a seguirti.
io ero la tua allucinazione, in ascolto
e fiorita, e tu mi cantavi:
già nuova pelle si stava formando su di me
dentro il luminoso sudario di nebbia
dell’altro mio corpo; già
si riformava polvere sulle mie mani e avevo sete.
Io riuscivo a distinguere solo i contorni
della tua testa e delle spalle,
nere contro la bocca della caverna,
quindi non ho potuto vedere affatto
il tuo viso, quando ti sei voltato
e mi hai chiamato perché già mi avevi
perduta. Ultima cosa
di te, un ovale scuro.
Pur sapendo quanto ti avrebbe ferito
questo fallimento, ho dovuto
chiudermi come falena grigia e cadere.
tu non riuscivi a credere che ero più della tua eco.
Margaret Atwood, Ottawa 1939.
Traduzione di Maria Luisa Vezzali
La scultura di Rodin rappresenta in tutta la sua plasticità il senso della particolare rilettura del mito di Orfeo ed Euridice, da parte della poeta Margaret Atwood, famosa per l’ispirazione mitologica delle sue poesie e per la sua notevole attività a favore del femminismo.
Come nella poesia precedente di Robert Browning, Euridice parla ed esprime chiaramente il suo punto di vista”ritornare al tempo non era mia scelta ” non ha alcuna nostalgia della vita e neanche di Orfeo che è ritornato con le sue “vecchie catene” e con l’ immutato egoismo di chi non l’ha mai vista come persona ma come semplice proiezione del suo canto, niente più che un fantasma “interiore“. Alla fine Orfeo è incredulo difronte alla donna che, rinunciando alla vita, afferma la sua individualità “tu non riuscivi a credere che ero più della tua eco”
Syringa
” E’ qui che Orfeo ha commesso l’errore.
Euridice, ovvio, è svanita nell’ombra;
sarebbe svanita anche se non si fosse voltato”
John Ashbery, Rochester 1927
da ” I giorni della casa galleggiante”
in “Un mondo che non può essere migliore”
traduzione di Damiano Abeni, Moira Egan
Siringa o flauto di Pan è il caratteristico strumento musicale del dio dei boschi. Prende il nome da una ninfa dell’Arcadia, Siringa che, spaventata dall’aspetto di Pan e da questo inseguita, preferì mutarsi in canna sulle rive del fiume Ladone. Il dio allora, tagliò sette canne di lunghezze decrescenti e le unì tra loro, creando un flauto, siringa, appunto. Il suo nome dà il titolo alla poesia.
Nel suo lungo componimento, Ashbery evoca il mito di Orfeo, spostando la narrazione dall’infelice cantore di Euridice al tema più generale di cosa sia la poesia. Ashbery sembra ammonire che l’arte trascende i suoi artifici, Orfeo è ridotto in brandelli, il suo canto è un piccolo frammento, non è più materia per la Poesia che, come la musica, va ascoltata nel suo fluire nel tempo, non potendo “isolarne una nota e dire che è buona o cattiva”. Così, il canto di Orfeo non è altro che “ciò che accadde tanto tempo prima, in un piccolo paese, un’estate come un’altra”
La poesia, insomma, vive oltre il contesto del suo farsi e la sua storia procede.
Citare più frammenti della poesia Syringa, non avrebbe, pur volendo, agevolato la sua comprensione, vista la complessità dei testi di Ashbery. Ho preferito riportare pochi versi, la risposta a una domanda, quella che la poesia di tutti i tempi si è sempre posta: perchè si è voltato?
Qui nel blog altre riletture del mito Orfeo ed Euridice
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10 commenti | Tag: John Ashbery, mito, Orfeo ed Euridice, poesia, Poesie commentate, poeti inglesi | Pubblicato in: tutti gli articoli